Alexander Arnold
Constantine Issigonis, il padre della Mini, aveva idee estremamente chiare su
come costruire e su come imporre alle persone un mezzo pratico ed economico.
"Imporre" non è un termine esagerato, perché Sir Issigonis sosteneva
che "la gente non sa quel che vuole, sono io che devo suggerirglielo".
Nato nel 1906 a Izmir (Smirne) da genitori europei (il padre era un inglese di
origine greca, possessore di un cantiere navale, e la madre era figlia di un
industriale bavarese della birra che aveva costruito una fabbrica a Smirne),
Issigonis aveva vissuto agiatamente, con insegnanti privati ed un gran numero di
servitori, fino all'entrata della Turchia nella prima Guerra Mondiale a fianco
dei tedeschi; dopo le vicissitudini del periodo bellico e l'occupazione greca di
Smirne, nel 1922 Kemel Attaturk rioccupò la città e gli inglesi furono
evacuati a Malta.
Dopo la morte del padre, il sedicenne Issigonis approdò con
la madre in Inghilterra ed iniziò a frequentare, per propria scelta, il
Politecnico di Battersea, dove conseguì tre anni dopo il diploma di ingegnere.
Lavorò alla Gillett di Londra, dove partecipò allo sviluppo di una primitiva
trasmissione semiautomatica, per passare successivamente alla Humber, da poco
acquisita dal gruppo Rootes, e poi, nel 1936, alla Morris.
Durante il periodo
Humber, in cui iniziò ad occuparsi di sospensioni, Issigonis
realizzò assieme all'amico George Dowson, un ingegnere‑contadino di
Coventry, la sua prima vettura completa, la "Lightweight Special", una monoposto da competizione dotata
del motore della sua Austin Seven Ulster con compressore. L'esperienza di quella
vettura fu molto utile anche nel lavoro successivo per la Morris: la
realizzazione di una sospensione anteriore a ruote indipendenti completa degli
organi di sterzo, impiegata nel dopoguerra dalla MG, a partire dalla YType
del 1947 per proseguire la sua lunga vita, attraverso le varie serie T e la A,
fino al modello B.
Già nel periodo bellico, però, Issigonis stava componendo
nella sua mente un mosaico molto personale le cui tessere avrebbero costituito i
principi ispiratori della sua filosofia progettistica per i decenni successivi:
piacevolezza di guida, stabilità a tutta prova, tanto spazio a
disposizione dei passeggeri, economicità di utilizzo.
I prototipi della sua prima realizzazione
integrale, la Minor, presero forma nel 1943 e vennero denominati
"Mosquito". Il progetto fu approvato nel 1945, quando la maggior parte
del lavoro di sviluppo era in realtà già stata svolta. La prima vettura
milionaria dell'industria automobilistica
britannica, presentata nel 1948, fu subito un successo, ma non riscosse un
gradimento universale; lo stesso William Morris, "Lord Nuffield", non
si volle far ritrarre assieme alla Minor, sbottando: "Portatela via, sembra un
uovo schiacciato".
Ma la freddezza dimostrata dai capi "storici"
fu poca cosa rispetto alle prospettive per gli anni a venire: Morris e Austin si
unirono nella British Motor Corporation nel 1952, lasciando poche speranze alle
tendenze più creative, tese com'erano a consolidare la propria posizione ed a
razionalizzare la produzione negli anni difficili del dopoguerra. In questa
situazione era facile prevedere poco spazio per gli esperimenti di Issigonis,
che proprio in quel periodo stava lavorando su una Minor a trazione anteriore.
Da qui la coraggiosa migrazione alla Alvis, Casa produttrice di veicoli militari
e vetture di qualità, che lasciò mano libera al progettista per la
realizzazione di una berlina sportiva da sviluppare dal classico "foglio
bianco", rispettando due direttive fondamentali: un motore 8V con albero a
cammes in testa da 3 litri ed un sistema di sospensioni esclusivo e finora mai
adottato da una vettura, il "Moulton Hydrolastic" (dal nome del
progettista, Alex Moulton), con elementi anteriori e posteriori interconnessi
idraulicamente.
Mentre Issigonis metteva a punto un prototipo destinato a non
entrare in produzione, ma che avrebbe rispecchiato in pieno i suoi principi
(tranne forse quello dell'economicità), Sir Leonard Lord, "Lord
Lambury", classe 1896, ex Austin ed ora BMC, cominciava a paventare anni più
difficili per l'automobile: al di là della situazione economica del dopoguerra,
forse una premonizione della crisi di Suez del 1957, ad ennesima dimostrazione
del fiuto di uno degli imprenditori più brillanti nella storia dell'industria
inglese.
Fu così che nel 1956, dopo essere tornato da Coventry a Longbridge,
Alec Issigonis si ritrovò alla guida di un gruppo comprendente Chris Kingham
e John Shepard, "rubati" alla Alvis, e Jack Daniels, già telaista della
Minor, impegnato nel progetto XC9001, codice che identificava una vettura a
trazione anteriore di 1.500 cc di cilindrata. Il propulsore previsto (tanto per
non buttare via niente) era in pratica una bancata dell'8V Alvis, e le
sospensioni (come sopra) erano le Hydrolastic.
L'obiettivo di proporre al
pubblico un prodotto più interessante della media delle vetture disponibili
venne riaggiustato a distanza di qualche mese, quando la Gran Bretagna dovette
razionare il petrolio, con conseguente proliferazione di
"microvetture" sia italiane (Isetta) che tedesche (Heinkel,
Messerschmitt, BMW Isetta) e inglesi (Bond "Minicar", ulteriori
Isetta). Tutto ciò significava un mercato nuovo da assecondare al più presto,
ma anche un insulto alla tradizione e al buon gusto dell'industria
automobilistica britannica, almeno secondo la visione di Lord Lambury.
Per Alec
Issigonis divenne allora prioritario creare un'automobile moderna ed economica,
piccola ma dignitosa, che potesse "spazzare le strade da queste orrende
creature": anche in questo caso completa libertà di azione, col solo
obbligo di utilizzare un propulsore esistente e collaudato. Una condizione,
questa, a cui aveva dovuto sottostare già all'epoca della Minor, per la quale
avrebbe desiderato un motore totalmente nuovo, a quattro cilindri orizzontali
contrapposti. In ogni caso, un progetto ambizioso per una vettura diversa, perché,
sono ancora parole di Leonard Lord, "costruendo automobili tremendamente
buone, quella di venderle è l'ultima delle preoccupazioni": com'erano
cambiate le cose alla BMC, nel giro di pochi anni!
La Mini nacque allora da una
sollecitazione legata alla situazione contingente ma "creativa" al
tempo stesso, e quindi come una palestra ideale per un progettista originale,
che si trovava piacevolmente costretto a riassumere nella stessa automobile le
intuizioni messe a fuoco nel corso degli anni.
Il progetto ADO
("Austin Drawing Office") numero 15 avrebbe brillato per il massimo
sfruttamento dello spazio; a questo scopo, motore, trasmissione, ruote e
sospensioni dovevano interferire il meno possibile con il volume destinato
all'abitacolo (per almeno quattro persone) ed al bagagliaio. La soluzione della
trazione anteriore, da tempo accarezzata da Issigonis, si dimostrò praticamente
obbligatoria. In quegli anni, tedeschi e francesi avevano già sdrammatizzato
questo schema di trasmissione, mentre in Italia, malgrado gli studi già
effettuati da anni, sussistevano non poche resistenze da parte delle Case
maggiori.
Si narra che il progetto Fiat, opera di Oreste Lardone e già pronto
all'inizio degli Anni Trenta, venne scartato perché durante la prova su strada
del prototipo, con Giovanni Agnelli a bordo, la vettura prese fuoco! Il malumore
derivante dall'episodio, in questo caso, avrebbe influenzato le scelte tecniche
di alcuni decenni.
In Gran Bretagna, vetture a trazione anteriore avevano
figurato regolarmente nel listino di alcune Case minori, come la BSA (celebri le
Scout degli anni '35/'40) e la Alvis (già negli anni '20, e con i motori della
serie F), ma non ancora in quello delle marche principali. Nel 1948, Leonard
Lord aveva acquistato per 10.000 sterline il prototipo "Duncan
Dragonfly", realizzato da un gruppo di progettisti di North Walsham, nel
Norfolk, con trazione anteriore e sospensioni con elementi in gomma, senza che
comunque l'interesse per questo studio influisse minimamente sull'Austin A30,
prossima alla presentazione e rigorosamente ortodossa.
Nella ADO 15 si fecero
due passi in avanti, disponendo il motore trasversalmente per ridurre l'ingombro
e per ottimizzare la distribuzione dei pesi, e collocando il cambio sotto al
motore, praticamente "dentro la coppa dell'olio". Un'idea che
Issigonis metteva in pratica per primo, e non senza difficoltà, ma che vedeva
un precedente in uno studio di Alan Lamburn per una vettura economica, descritto
in un articolo di Gordon Wilkins nel numero di Autocar del settembre '52 e
proposto allo stesso Issigonis, che si era dimostrato molto interessato alla
novità.
Tra i motori "imposti" la scelta cadde quasi
obbligatoriamente sull'Austin serie "A", introdotto nel '51 con la A30
e nel frattempo cresciuto da 803 a 948 cc per l'impiego nella evoluzione A35 e
nella Morris Minor. Dopo gli esperimenti con "mezzo" motore
"A" (un bicilindrico di 450 cc, rivelatosi inadeguato per potenza e
rumorosità), si optò per il propulsore standard.
A completamento del gruppo
motore-trasmissione (miracolosamente condensato in meno di mezzo metro di
ingombro longitudinale) l'adozione dei giunti omocinetici Hardy Spicer,
derivanti da un brevetto del cecoslovacco Hans Rzeppa risalente al 1926 e
perfezionati in Inghilterra. Rispetto ai tradizionali giunti cardanici,
annullavano quasi completamente le reazioni allo sterzo e risolvevano i problemi
che nei primi esperimenti con le "Minor tutto-avanti" erano rimasti
irrisolti.
Le concezioni estetiche di Issigonis erano improntate alla massima
funzionalità; in questo caso, date le ridotte dimensioni, le ruote e le
sospensioni dovevano contribuire alla compattezza ed alle proporzioni d'insieme.
La scelta cadde su ruote da 10 pollici, per le quali nessuna Casa inglese di
pneumatici aveva allora in produzione pneumatici adatti. Mentre la Dunlop
provvedeva ad assecondare l'originale richiesta, i test vennero effettuati con
le ruote di una Goggomobil, le uniche allora a disposizione di quel diametro.
Le
sospensioni con elementi in gomma, nelle idee del progettista, avrebbero infine
garantito un adeguato assorbimento delle sollecitazioni trasmesse alla scocca da
ruote così piccole, con tempi di reazione inferiori a quelli delle molle
elicoidali. Una soluzione, questa, rimasta tipica della Mini, ma non priva di
controindicazioni, data la tendenza della gomma a perdere elasticità nel tempo.
Malgrado ciò, dopo il periodo Hydrolastic (dal 1964 al 1968 per la Mini
tradizionale, dal 1969 al 1971 per la Clubman), questo tipo di sospensione, opportunamente
rivisto, tornò ad equipaggiare l'utilitaria britannica.
Nell'autunno del 1957, i primi prototipi iniziarono ad eseguire i test stradali: le "scatole arancione", come vennero soprannominate
soprattutto per il colore (ma anche il richiamo alla "scatola" sarebbe
rimasta una costante della vettura) avevano quasi l'aspetto definitivo, a meno
della griglia anteriore stile A35, con intenti di camuffamento, simpaticamente
stridente con tutto il resto.
Se le caratteristiche stradali confermarono quanto
era stato previsto a livello di progetto, il congelamento dei carburatori al di
sotto di determinate temperature suggerì una rotazione di 180 gradi del
propulsore, in maniera tale da collocare il gruppo di alimentazione in una zona
protetta. La nuova disposizione impose un ingranaggio supplementare tra motore e
cambio (per mantenere lo stesso senso di rotazione) ed una riduzione della
cilindrata a 848 cc: alla famiglia dei motori "A" si aggiungeva quindi
una nuova versione a corsa corta.
L'approvazione incondizionata di Leonard Lord
("Mettetela subito in produzione!") dopo i primi test accelerò lo
sviluppo in vista della presentazione. Una modifica importante fu rappresentata
dall'adozione di telaietti separati per l'avantreno ed il retrotreno, per
ridistribuire le sollecitazioni su un'area maggiore della scocca. La batteria fu
inoltre spostata dal vano motore al bagagliaio, per migliorare la distribuzione
dei pesi. La tendenza al bloccaggio delle ruote posteriori in frenata, che aveva
suggerito questa modifica, non venne comunque mai eliminata completamente.
La
presentazione ufficiale della vettura, sia come Austin Seven (anzi,
"Se7en" nelle prime pubblicità) che come Morris Mini Minor avvenne il
26 agosto 1959, dopo che la produzione era già stata avviata in aprile a
Longbridge, negli stabilimenti Austin, ed in maggio alla Morris a Cowley. Nel
corso di quell'anno le riviste di tutto il mondo avevano già pubblicato qualche
disegno in anteprima: curiosamente, la stampa specializzata italiana anticipava
già che l'innovativa utilitaria inglese sarebbe stata montata anche in Italia
dalla Innocenti, con circa sei anni di anticipo sulla realtà, ed ancora prima
che nello stabilimento di Lambrate venisse assemblata la prima A40 su licenza.
In ogni caso, e come era prevedibile,
la Mini diede uno scossone non da poco al
mondo dell'automobile in quello scorcio di fine decennio. Inizialmente,
all'entusiasmo della critica non si accompagnò altrettanto entusiasmo da parte
del grande pubblico. Quella vettura, concepita nelle intenzioni per la
motorizzazione di massa, incontrò per primo il favore dell'utenza più
raffinata, che ne aveva subito apprezzato la forte carica innovativa. La
connotazione "chic" anticipò quindi quella popolare: malgrado il
prezzo competitivo al quale la vettura fu posta in vendita, la Mini dovette
superare l'impatto "sconvolgente" ed alcuni problemi di qualità per
gli esemplari prodotti nel corso del primo anno.
La vetusta A35, mantenuta in
produzione nelle versioni commerciali fino al '68 (ereditando tra l'altro il
motore di 848 cc nel '64), uscì di scena come vettura familiare in concomitanza
con la presentazione della Mini, anche se in realtà già nel '58 era nata la
A40 con carrozzeria Pininfarina, nella quale si potrebbe vedere un accenno di
continuità con la vecchia utilitaria. La Morris Minor proseguì invece la
sua lunga carriera fino al 1971, sempre apprezzata dalla clientela più
tradizionale.
Tralasciando i paragoni con le vetture BMC, la Mini si collocava
comunque in una fascia di mercato comprendente vetture molto meno avventurose.
La gamma Fiat del tempo non prevedeva "mezze misure" tra la 600 e la
1100: la 850 sarebbe arrivata nel '64, ed era ancora una vettura a motore
posteriore. Si devono attendere la Autobianchi Primula ('64) e la 128 ('69) per
avere due esempi del gruppo torinese ispirati in qualche modo all'architettura
della vettura di Issigonis. La prima vera Mini del gruppo Fiat (la A112) sarebbe
arrivata nello stesso periodo, costituendo, tra l'altro, una delle reinterpretazioni
più riuscite dello stesso tema.
Altre Case seguirono filosofie
differenti; la Ford presentò la nuova Anglia 105E nel '60, vettura tradizionale
e di successo, e la Triumph uscì proprio nel '59 con la Herald, altra vettura
di impostazione classica. La Hillman, già nel gruppo Rootes, uscì anche essa
nel '63 con la propria Mini, la Imp, con motore posteriore, che non ebbe il
successo sperato, ed anche la Simca si conformò allo schema del motore
posteriore con la 1000 del '62.
La Renault mantenne in produzione vetture a
motore posteriore della stessa cilindrata (Dauphine, R8) affiancandole con una
trazione anteriore (R4) di stile molto diverso. Le Saab e le Auto Union-DKW
erano trazioni anteriori "storiche", ma ancora con motore
longitudinale e a due tempi; la copia più fedele della Mini, la Honda N (360 e
600 cc) sarebbe uscita nel '68, rimanendo per anni una potenziale concorrente
esotica e poco diffusa in Europa. In ogni caso, si sarebbero dovuti attendere
gli anni '70 per vedere le varie "supermini" delle Case principali
(127, R5, Fiesta, Polo, 104, ecc...).
La Mini è considerata spesso "una
tipica vettura inglese": si potrebbe discutere a lungo sul significato di
questa affermazione. Se consideriamo la maggior parte delle vetture inglesi
prodotte fino al '59, possiamo individuare una serie di caratteristiche comuni e
distintive (stile, sportività, classicità ecc...) senza per questo scorgere
qualcosa di veramente innovativo. Curiosamente , la vettura che ha rotto in modo
decisivo ogni legame con la tradizione è diventata un simbolo di una delle
nazioni più tradizionaliste.
In questo caso, però, concorrono alla costruzione
del "mito" componenti legate alla moda, al costume, all'immagine della
"swingin' London" e della dissacrazione, che poco hanno da spartire
con la tradizione tecnica del motorismo britannico; anzi, l'accostamento tra la
Mini e la Rolls Royce potrebbe equivalere in qualche modo a quello tra
i
Beatles e la Regina Elisabetta, non dimenticando che fu proprio la Regina a
nominare "baronetti" i quattro di Liverpool. Potevano quindi
mancare, in questa armonica commistione di sacro e profano, le reinterpretazioni
"all'inglese" di un automobile d'avanguardia come la Mini?
Le prime
Seven e Mini Minor si distinguevano per gli allestimenti spartani e per le
novità dei "due volumi", con il risultato di un'aria sbarazzina ed
informale: ma niente paura, richiamando alcuni "simboli della
tradizione" (cruscotto di radica, sedili in pelle, codine e radiatore
verticale), l'effetto si poteva cambiare (rovinare?) di colpo.
Fu così che nel
'61 vennero ricavate dalla Mini la Riley Elf (folletto) e la Wolseley Hornet
(calabrone). Si trattava di un tipico esempio di "badge engineering"
applicato alla "piccola" del gruppo BMC, utilizzando due marchi di
prestigio che oramai avevano perso da tempo la propria identità. La Wolseley
era leggermente meno rifinita della Riley, e quindi un po' più economica.
Queste due curiose vetturette proseguirono la loro carriera fino al '69,
raggiungendo la terza serie e totalizzando un discreto numero di esemplari
(30.192 Elf e 28.455 Hornet), quasi esclusivamente sul mercato inglese.
Una
variazione sul tema più pratica, ma che accostava sempre elementi moderni e
tradizionali, nacque invece già nel '60, con le due giardinette Seven
Countryman e Mini Traveller, che richiamavano alcune delle caratteristiche
tipiche della Morris Minor Traveller, come i profili in legno (con pura funzione
decorativa) e la doppia portiera posteriore, per accedere al vano di carico.
Successivamente, fu disponibile anche una versione semplificata, senza
guarnizioni in legno; sullo stesso pianale (a passo allungato rispetto alla
berlina) vennero realizzati anche un Van (furgoncino chiuso) ed un Pick-up
(camioncino), rimasti in produzione fino al 1982. Tutte queste versioni da
trasporto della Mini non impiegarono mai le sospensioni Hydrolastic.
Alec
Issigonis fu nominato Direttore Tecnico della BMC alla scomparsa di Leonard
Lord, nel 1967; in realtà, però, sin dall'epoca della Mini la sua influenza
sugli orientamenti del gruppo era stata particolarmente pesante. I principali
modelli successivi furono per molti versi uno sviluppo della stessa idea di
base: trazione anteriore, motore trasversale, carrozzeria a due volumi larga e
bassa, con le ruote "ai quattro angoli" e grande abitabilità. La 1100
(ADO 16), prodotta anch'essa inizialmente come Austin e Morris, ma poi estesa
praticamente a tutti i marchi della BMC, ebbe un grande successo ed adottò
subito (e quindi per prima) le sospensioni Hydrolastic. La 1800 del 1964, pur
essendo altrettanto moderna rispetto alla concorrenza, non entusiasmò allo
stesso modo il pubblico, come pure tutte le varie versioni derivate nel corso
degli anni (tra cui la 3000 con motore a sei cilindri e la Maxi 1500 del 1969).
La filosofia di Issigonis, che privilegiava la funzionalità all'estetica, non
ripagava quando veniva applicata a vetture di classe superiore.
Altro punto
dolente di questa gestione, il basso profitto che la produzione di queste
vetture, costose da produrre, consentiva di raggiungere. Da questo punto di
vista, la BMC 1100 fu sempre più brillante della Mini, che doveva essere
venduta quasi sottocosto per poter competere, ad esempio, con la Ford Anglia. A
questo proposito, la Ford effettuò nel 1961 uno studio proprio sulla Mini per
valutare il suo costo di produzione: secondo i risultati, la BMC perdeva trenta
sterline per ogni Mini costruita!
Nel 1968 avvenne la fusione tra una BMC
(divenuta nel frattempo British Motor Holding) in piena crisi e la Leyland, a
costituzione del gruppo British Leyland Motor Company. Lord Stokes, presidente
dal '69 della BLMC, giudicò eccessiva l'influenza esercitata da Issigonis
sugli orientamenti di mercato della BMC: non a caso, negli anni
successivi, la vetture ex-BMC a trazione anteriore lasciarono spazio a modelli
più tradizionali ed economici da produrre (come la Morris Marina), nell'intento
di riguadagnare terreno anche nel settore delle "vetture di flotta",
acquistate a stock dalle compagnie di noleggio o dalle grandi aziende. Le
precedenti vetture BMC venivano automaticamente scartate come potenziali
"fleet cars", perché giudicate poco affidabili e di manutenzione
costosa. Nemmeno quella fu la strada della rinascita, come dimostrarono i fatti
degli anni successivi.
Malgrado la situazione della BLMC, però, la Mini
continuò imperterrita il suo cammino, guadagnandosi un marchio tutto suo nel
1970 e difendendosi molto bene dagli "attentati" provenienti
dall'interno del suo stesso gruppo. Uno di questi, il tentativo di conferirle
una maggiore "importanza" con la serie Clubman, un altro la
presentazione, nel 1980, della sua ideale evoluzione, la Metro. Dopo il primo
milione di esemplari, raggiunto nel 1965, ed il secondo, nel 1969, la Mini
proseguì tranquillamente fino al terzo (1972), al quarto (1976) ed al quinto
milione (1986).
Sir Alec lasciò questo mondo nel 1988. Il suo ultimo incarico
fu quello di Direttore della Ricerca; quando andò in pensione, nel '71, per il
regalo d'addio il personale della Leyland assecondò una sua singolare
richiesta: la più grande delle confezioni di Meccano, la "Numero 10".
Un dono di cui andava orgoglioso, un gioco intelligente e "pratico",
ideale per un ingegnere "con le mani sporche di grasso", che amava
definirsi "un venditore di ferro".
Nel 1990, con 31.655 unità
esportate delle 46.045 prodotte, che oramai si chiamava Rover Mini era
ancora la vettura inglese di maggior successo all'estero. I risultati conseguiti
giustificavano gli investimenti necessari per adeguarla alle norme
anti-inquinamento, ed il fido carburatore SU del classico propulsore
"A" lasciava spazio ad un impianto di iniezione. Pare che la Rover
abbia pianificato la costruzione dell'attuale Mini, nelle varie versioni, almeno
fino al 1995, ma non siamo davvero in pochi a credere che una Mini verrà
prodotta "per sempre".
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